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Let's the silence play

Giuseppe Gavazza

Ripenso al grandioso silenzio che ha seguito l'esecuzione del Quartetto n.2 di Feldman di cui ho parlato qui su TP il 6 ottobre scorso: il reverbero (il tempo di stasi non silenziosa che segue qualunque suono naturale, acustico; non si può annullare l'inerzia nel mondo fisico) della chiesa era di alcuni secondi ma il reverbero interiore è durato - per me - molto di più: minuti, ore, giorni ….
In teoria un movimento che si spegne esponenzialmente non arriva mai a spegnersi del tutto.
E il mondo del risuonare interiore è psichico ed emotivo, non fisico.

Ci ripenso spesso, infastidito dall'abitudine - che detesto - di tanti luoghi e situazioni di concerto, dove appena è stata eseguita l'ultima nota subito si attacca con la musica diffusa, spesso senza alcun riguardo o sensibilità per quale musica, quale tonalità, quale tempo: come se al ristorante, con il conto, a fine pasto, ti infilassero in gola qualcosa, una cosa qualunque (commestibile, ben inteso): una caramella, un'acciuga, una cucchiaiata di mayonnaise o di Nutella. Nessuno lo accetterebbe.
Invece con la musica imposta a fine concerto pare che nessuno se ne accorga: chissà.
Anche questo è segno che c'è più civiltà del cibo che del suono.

Così come trovo intollerabili i rumori in concerto, soprattutto quelli evitabili e inopportuni: la caramella scartata senza attenzione, la zippo della borsa richiusa, il colpo di tosse o il soffiare di naso sguaiato, l'applauso presenzialista e frenetico una semicroma dopo l'ultima nota suonata (ma non ancora spenta) il tacchettio di chi se ne va quando è evidente dal pianissimo e rallentando che il brano finirà pochi secondi dopo.
Fastidiosissimi reverberi, lunghi e rumorosi che restano sui timpani come un sapore sgradevole.

Il silenzio assoluto non esiste; impariamo ad ascoltare quello relativo.

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